App Immuni, da sola non serve

Finalmente anche i media mainstream iniziano a chiedersi che ce ne facciamo dell’app se poi non facciamo i tamponi. Ben arrivati!

In attesa di avere trasparenza sul processo di scelta del fornitore – grazie ancora a quello che fa l’associazione Luca Coscioni! – e del documento prodotto dalla task force tecnologica per capirne di più, la discussione si sposta sull’efficacia di una strategia 3T dove solo una delle T è in gestione.

Ammettendo che l’app sia perfetta e che arrivi in tempo (già, perchè le mie previsioni di metà maggio se usano il sistema Apple/Google slittano a metà giugno), come raggiungiamo i 36 milioni di utenti necessari perchè sia efficace? Anzi addirittura mi chiederei se esistono in Italia 36 milioni di smartphone abilitabili, considerando che secondo Istat gli smartphone in Italia sono 44 milioni (da cui vanno tolti quelli vecchi e quelli possseduti dalla stessa persona… quanti di voi ha due smartphone magari uno per lavoro e uno personale?).

Ipotizzando di raggiungerli, come facciamo a fare i tamponi in maniera veloce ed estesa? Per ogni positivo si stimano 200 contatti a cui fare il tampone. con 2mila/positivi al giorno, sono 400mila tamponi. Al giorno. Ne abbiamo fatti meno di 2 milioni da gennaio ad oggi. Sapendo che l’app vi può avvisare di essere stati a contatto con un positivo ma che nessuno vi farà il tampone velocemente, sareste disposti a stare in quarantena per 14 giorni senza tampone e senza sintomi ogni volta che vi arriva un alert?

Ovviamente tace la ministra Pisano (sarà impegnata a continuare a cercare consulenti da 130mila euro/anno?), tacciono quelli della task force tecnologica “perchè il loro lavoro è concluso chiedete al Ministero” insomma nullavedonullasoesec’erodormivo e se non stai attento ti querelo, anche i VC sterzano passando da “app a tutti i costi” ad un più saggio “serve anche l’app” (tanto se passa l’idea di usare dati sanitari nel privato, i soldi arrivano comunque). Perchè in tutto il bailamme legato all’app, a molti è sfuggito il supporto senza se e senza ma di chi, con i dati sanitari, ci può fare business futuro. Addirittura una sponsorizzata su Twitter per chiedere che succeda. Una finestra di Overton sull’uso di dati altamente sensibili e riservati, e su cui serve tenere alta l’atenzione.

E chi dovrebbe dare risposte, tace.

Privacy ai tempi della didattica a distanza

“Gentili genitori – scrive la Scuola primaria – le video lezioni via Zoom saranno sospese immediatamente per problami di privacy e riprenderanno il prima possibile”. Accadeva tre settimane fa, dopo un paio di collegamenti effettuati con le maestre.

Poi il silenzio, fino a ieri quando viene comunicata la nuova piattaforma “rispettosa della privacy”: Meet, della suite Google. Per curiosità sono andato a vedere la policy sul trattamento dati e ho selezionato alcuni paragrafi che spiegano:

When creating this account, the school may provide Google with certain personal information about its students and educators, which includes a user’s name, email address, and password in most cases, but could also include secondary email, phone, and address if the school chooses to provide that information. Google may also collect personal information directly from users of G Suite for Education accounts, such as telephone number, profile photo or other information they add to a G Suite for Education account.

Google also collects information based on the use of our services. This includes:

  • device information, such as the hardware model, operating system version, unique device identifiers, and mobile network information including phone number of the user;
  • log information, including details of how a user used our service, device event information, and the user’s Internet protocol (IP) address;
  • location information, as determined by various technologies including IP address, GPS, and other sensors;
  • unique application numbers, such as application version number; and
  • cookies or similar technologies which are used to collect and store information about a browser or device, such as preferred language and other settings.

G Suite for Education users may have access to other Google services that we make generally available for consumers, such as Google Maps, Blogger, and YouTube. We call these “Additional Services” since they are outside of the Core Services.

We use this information to offer users tailored content, such as more relevant search results. We may combine personal information from one service with information, including personal information, from other Google services.

Google may serve ads to G Suite for Education users in the Additional Services.

A school may allow students to access Google services such as Google Docs and Sites, which include features where users can share information with others or publicly. When users share information publicly, it may be indexable by search engines, including Google.

Information we collect may be shared outside of Google in limited circumstances. We do not share personal information with companies, organizations and individuals outside of Google unless one of the following circumstances applies:

  • With user consent. We will share personal information with companies, organizations or individuals outside of Google when we have user consent or parents’ consent (as applicable).
  • With G Suite for Education administrators. G Suite for Education administrators have access to information stored in the Google Accounts of users in that school or domain.
  • For external processing. We provide personal information to our affiliates or other trusted businesses or persons to process it for us

Depending on the settings enabled by the school, users can use the various controls to manage their privacy and information.

E il problema era Zoom?

La fine del giornalismo (e le colpe dei giornalisti)

Qualche spunto di riflessione sul futuro dei giornali, e dei giornalisti. Metto insieme un paio di notizie che mi hanno colpito nel weekend, lasciando a voi lettori trarre le conclusioni.

Si parla spesso di futuro dei giornali, ma l’impressione che ho è che i giornalisti non siano troppo interessati al futuro dei giornali. Spesso contrari al cambiamento, attaccati al passato (che non c’è più e non tornerà) e ai privilegi di un mestiere che è cambiato, concentrati a salvare i benefici ma mai davvero disposti a mettersi in gioco.

La riorganizzazione de LaStampa
La prima notizia è la riorganizzazione de LaStampa: meno carta (da 40 a 32 pagine), meno inserti cartacei, più digitale (copertura dalle sette di mattina all’una di notte), redazione concentrata a Torino (a Roma solo politica, Vaticano e poco altro), due turni da 40 giornalisti al servizio di Web e carta stampata. Reazione dei giornalisti? Due giorni di sciopero totale, più sciopero delle firme ad oltranza.

Gemelli diversi
La seconda notizia (preoccupante) del weekend è l’uscita di due pezzi identici – parola per parola, incluse le virgole – su due testate diverse (Il Giornale e Corriere dello Sport) a firma di due giornalisti diversi (Gabriele Marcotti da Londra e Lorenzo Auso, sempre da Londra).

Ricapitoliamo: due giornali diversi pubblicano a firma di due giornalisti diversi due articoli identici. Il tutto nel silenzio totale degli interessati, dei rispettivi caporedattori, dei rispettivi direttori e dell’Ordine dei Giornalisti.

INPGI o no, purchè con benefit
La terza area di interesse per capire un po’ meglio dove sta andando il giornalismo è l’elezione dei rappresentanti INPGI, l’istituto di previdenza dei giornalisti. E’ un tema piuttosto tecnico e da addetti ai lavori, ma in queste ultime settimane si è assistito ad un dibattito tra chi vuole “salvare” l’INPGI e chi la vuole far confluire nell’INPS.

Entrambe le soluzioni contengono elementi che mostrano come i giornalisti siano più interessati al futuro dei giornalisti che al futuro dei giornali. “INPGI deve confluire in INPS perchè così le pensioni sono garantite” ovvero siccome le entrate sono poche (perchè i giornalisti assunti sono sempre meno) allora meglio finire nel calderone così qualcun altro pagherà.

“INPGI deve rimanere indipendente, basta prendere i versamenti dei comunicatori per aumentare le entrate” ovvero forzare un mestiere (il comunicatore) in un altro (il giornalista); due mestieri che dovrebbero stare separati il più possibile per evitare pericolose commistioni. Il tutto, ovviamente, senza prendersi in carico le pensioni erogate attualmente ai comunicatori (mica scemi no? prendo i versamenti ma non le uscite) e senza rinunciare ai privilegi garantiti dall’attuale sistema (un esempio: INPGI paga – a differenza di INPS – l’infortunio extra professionale).

Errori a profusione
Sono tre esempi, ovvio. A cui unirei l’ormai imperante sciatteria tra errori di ortografia, titoli e occhielli incomprensibili, clickbaiting continuo.

Corriere della Se…ra.
Rimandato in matematica (8% di 132 miliardi non fa 165 milioni)
Qualcuno si è portato a casa un ‘non’

Mi sembra che i diversi elementi – pur con gradi di complessità e profondità diversi – siano una cartina al tornasole sul fatto che i primi a non voler salvare i giornali siano i giornalisti stessi. Che ne pensate?

(Curioso no? Dieci anni fa scrivevo che “non servono giornali, ma giornalisti“).