Ha fatto molto scalpore la perquisizione di Google Italia e la richiesta di rinvio a giudizio per due dirigenti (statunitensi) della società americana: l’accusa è di concorso in diffamazione aggravata.

I due non avrebbero vigilato a sufficienza, lasciando per una decina di giorni la possibilità di scaricare l’ormai noto video del ragazzo disabile di Torino picchiato dai compagni di classe.

A quanto si è appreso, tutte le persone sentite come testimoni dal pm hanno affermato di non avere la possibilità di controllare le immagini, possibilità che, invece, avrebbero negli Usa dove si trova il server.

Ovviamente non regge. E infatti Stefano sul suo blog e su quello di Google Italia? corregge il tiro:
Le attività relative a Google Video vengono effettuate da personale che non risiede in Italia, quindi noi localmente non abbiamo accesso diretto al contenuto, motivo per il quale abbiamo immediatamente contattato il team che si occupa di questo prodotto, lavorando a stretto contatto con chi si occupa delle indagini. L’estrapolazione di quelle poche parole ha evidentemente generato un equivoco che lede in maniera ingiusta l’immagine di Google Italia.

Al di là delle questioni di lana caprina, rimane l’importanza di ciò che è successo: è la prima volta che Google finisce nel mirino in Italia per non aver vigilato sui contenuti che mette a disposizione. Io credo che mettere sotto accusa Google sia ridicolo, la responsabilità di un aggregatore (come di un admin di forum e simili) è sì quella di vigilare, ma con tempi e metodologie diverse dal real-time. Ovviamente non basta dire “il server non è in Italia” per salvarsi, ma questo credo sia stato chiarito.

In altre parole, Google può avere la colpa di aver lasciato il video troppo a lungo (e di aver forse preso sotto gamba la parte relazionale-informativa della vicenda), ma con miliardi di contenuti è abbastanza normale che ci vada qualche giorno per accorgersi di eventuali anomalie. La colpa è di chi ha effettuato le riprese e di chi le ha poi messe a disposizione sul Web.

E’ anche vero che altri aggregatori di contenuti (specie sul mobile) hanno specifiche risorse che controllano qualsiasi cosa venga pubblicata: file per file, se qualcosa non rientra nella policy viene scartato. Sono contenuti accessibili poi a pagamento, per cui le risorse economiche per pagare chi filtra ci sono: buisogna ora decidere se anche chi aggrega gratis debba vigilare, ovvero se la gratuità dell’accesso basta per evitare di controllare ex ante ciò che viene messo a disposizione.