Scrive Nicola Mattina su Facebook: “Nel 2009, quando mi occupavo di Working Capital, con Salvo Mizzi e Gianluca Dettori ci dicevamo che occorreva raccontare l’innovazione e che questo avrebbe contribuito a far nascere anche in Italia un florido ecosistema di startup. Ho organizzato e partecipato a molte iniziative con entusiasmo e convinzione. Barcamp, ignite, challenge di open innovation, programmi di accelerazione e via di seguito. Ormai ho perso il conto.

A distanza di anni, non posso che constatare un sostanziale fallimento di quella visione. L’Italia (e per molti versi l’intera Europa) non è un buon terreno di coltura per un’innovazione digitale che possa in qualche modo competere con quella prodotta negli Stati Uniti (o in Cina). Il vantaggio in termini di know-how e capitali è incolmabile e – con lo sviluppo dell’intelligenza artificiale – lo sarà ancora di più.

Negli ultimi dieci anni, nonostante gli sforzi, in Italia non è nato alcun ecosistema dell’innovazione digitale. Quello che è fiorito, invece, è un piccolo sistema di organizzatori di eventi che si parlano addosso e invitano politici e manager di aziende in mercati poco competitivi a inaugurazioni e celebrazioni.

Chi legge questo blog da anni, sa che sono sempre stato scettico sull’eccessivo storytelling, quel “pompare” artificialmente le storie pensando che magicamente un asino potesse diventare un purosangue se raccontato sufficientemente bene. E le (infinite) discussioni con, tra gli altri, Riccardo Luna sull’agomento lo dimostrano.

Credo che l’errore principale sia stato il tentativo di fare innovazione attraverso gli eventi e attraverso lo storytelling. L’innovazione non nasce dagli eventi, al limite gli eventi possono aiutare a disseminare un’informazione, a darne visibilità, a creare un fondo culturale comune su cui innestare innovazione. Invece abbiamo vissuto l’illusione che una storia ben raccontata potesse essere innovazione essa stessa.

E non abbiamo imparato molto in questi ultimi dieci anni, se è vero che molti tendono ancora oggi a credere al “miracolo dell’uomo venuto dagli States” (mi riferisco ovviamente al commissario straordinario Diego Piacentini) che, con bacchetta magica, senza budget e grazie a un’ottima comunicazione, possa magicamente cambiare un Paese arretrato culturalmente e digitalmente. Per fortuna, dal raccontare risultati inesistenti in 6 mesi siamo tornati ad un dibattito più serio, ovvero cosa riusciremo a fare in cinque anni (orizzonte più ragionevole) e a che condizioni.

Scimmiottare la Silicon Valley o i distretti hi tech esteri, nell’immaginario collettivo dello story telling, avrebbe dovuto portare il Paese nell’epoca degli unicorni. Non è successo. Troppe le differenze per applicare quei modelli qui da noi:

  • la cultura del rischio non esiste, in Italia. Inutile girarci intorno, se fallisci sei un cretino. Se ci provi e non ce la fai, sei un fallito. La sana competizione sul mercato è spesso mal vista, la cultura del lavoro e il miraggio del posto fisso e sicuro nella Pubblica Amministrazione sono ancora predominanti. E la mobilità tra aziende rimane bassa, perchè chi perde un lavoro sa che farà fatica a trovarne un altro.
  • La cultura digitale è bassissima. Un Paese dove Internet è ancora per pochi e dove il livello di digitalizzazione è ai minimi livelli.
  • Il sistema di venture capitalism è praticamente inesistente, ci sono pochissimi capitali di rischio che circolano, gli affari si fanno su business solidi e saldamente “aggrappati” alla politica (pensiamo al business dei rifiuti, agli appalti nella PA, alle infrastrutture). Perchè investire su iniziative rischiose quando la telefonata al politico di turno assicura un ritorno sicuro del capitale?
  • Una burocrazia asfissiante, dove qualsiasi procedura, progetto, iniziativa deve passare tra carte bollatre, notai, commercialisti, fisco, leggi, leggine e regolamenti.
  • Il tessuto aziendale italiano è fatto da piccole e medie imprese, spesso con bassa propensione al rischio e all’innovazione.
  • Il divario tra le diverse aree del Paese, in questa Italia dei mille campanili dove anzichè favorire la nascita di un grande polo nazionale (c’è a malapena spazio per uno, quasi sicramente non per due… e noi miriamo ad averne una ventina) ognuno pensa al proprio piccolo orticello
  • Un sistema scolastico e universitario troppo lontano dal mercato, troppo lontano dalle aziende, ingessato e poco dinamico. Anche qui, anzichè favorire le eccellenze si tende a mantenere la miriade di università medio piccole, zavorrando quelle che potrebbero volare alto.

La soluzione non è facile, non è immediata, non è indolore. Riformare significa incontrare resistenze, in qualsiasi settore si affronti il problema. Raccontarlo fa male, è meno sexy e coinvolgente dello storytelling dove è tutto meraviglioso e chiunque ce la può fare a diventare Facebook (magari! ma il mondo reale dice che pochissimi ce la fanno), ma è l’unico modo per cercare di avanzare.
Fino al prossimo convegno, almeno.