Google, condannata per la vicenda Google Video, ha attaccato la magistratura e lo Stato italiano. In una intervista rilasciata al Sole24Ore, il pubblico ministero Alfredo Robledo spiega perchè Google ha torto.

Nessun attacco al web, si è discusso dei soldi di Google, non della libertà». Dopo la sentenza che ha condannato tre manager del motore di ricerca per il video del pestaggio a un ragazzo disabile, Alfredo Robledo, pm aggiunto di Milano che con il collega Francesco Caiani ha svolto le indagini, discute dell’inchiesta. Si è discusso del ruolo degli intermediari. Va modificato? Non c’entra nulla. L’attenzione su questo punto è voluta da Google: tende a far credere che per la Procura gli intermediari siano responsabili dei contenuti. Quest’indicazione è stata per così forte da convincere, secondo me, anche l’ambasciatore.

L’opinione pubblica?
Google si è opposta alla presenza della stampa nell’udienza preliminare…

Qual è allora il punto?
La nostra tesi, desunta dagli atti, è che Google video non sia un intermediario, perché non si limita a mettere in contatto persone e contenuti in modo indifferente, come fa e-Bay, ma trae vantaggio. E così tratta i dati. Nella memoria al giudice, parliamo di’frode delle etichette: secondo il motore di ricerca si dovrebbe applicare la normativa europea sul commercio elettronico, ma Google video non è un intermediano perché agisce a fini di lucro. Quindi va applicata la legge sulla privacy. Nella documentazione per inserzionisti, che abbiamo trovato, si legge che la «missione di Google video è monetizzare ogni video».

E’ legittimo diritto d’impresa, però.
Certo. Ma il problema è trovare equilibrio tra legittime esigenze, diritto d’impresa e tutela della dignità della persona. Non abbiamo mai detto che Google deve mettere filtri, non tocca a noi.

Il video è rimasto online due mesi. Google avrebbe potuto fare in modo che fosse tolto prima?
Sì, non solo dopo la visualizzazione. Nella consulenza del professor Battiato, si cita anche un articolo del 2006 di due ingegneri di Google Inc, da cui si evince che era possibile cercare di individuare i video problematici. Già da marzo 2003, con la funzione SafeSearch, sviluppata da Google, si poteva monitorare i contenuti. Tuttavia questa tecnologia è stata applicata a Google video solo nel 2007, a nostro avviso perché non vi era più alcuna concorrenza con Youtube, acquisita da loro. Nel nostro caso, poi i segnali, come il titolo bruttissimo, non mancavano.

Dunque, filtri?
Mai parlato di censure, né è in discussione la libertà di internet. Qui si tratta di salute e dignità umana, diritti inalienabili e Google deve rispettare le leggi italiane. Il diritto d’impresa non può prevaricare quello alla tutela della persona. Nessuna indicazione di metodo, ma Google deve trovare un equilibrio.